21 Mar Una scuola senza maestri
La formazione è un percorso fatto di incontri.
Noi tutti ci siamo legati ad una disciplina perché qualcuno ci ha guidato a scoprirne la complessità e la bellezza.
La formazione non è solo comunicazione di concetti ma trasmissione di una cultura viva.
L’arte, la scienza, la stessa tecnica sono il frutto di un laborioso processo in cui uomini e donne si sono spesi per conoscere, interpretare e trasformare la dura realtà della materia in bellezza, pensiero, progresso.
Senza questa comprensione, senza questa riconoscenza, il sapere che oggi ereditiamo può rischiare di rimanere una nozione inerte.
Per questo la formazione non esige solo docenti tecnicamente preparati ma contesti formativi, o meglio esperienze formative.
Un’aula grigia in cui il docente parla per 2 o 3 ore di seguito è un contesto formativo? Un seminario in cui si proiettano dati scientifici straordinari è un’esperienza formativa?
Considerando i risultati dal grado di civiltà che una società raggiunge potremo dire che la formazione è un percorso deludente.
La povertà dei linguaggi, l’intolleranza, la volgarità espressiva, il qualunquismo dilagante, la stereotipia dei comportamenti, ci lascia supporre che ci sia stata un’interruzione nei processi di trasmissione culturale. Sembra che le aule si siano impoverite non di nozioni, non certamente di dati, ma di significato.
La formazione è un’arte e non si improvvisa, non si riduce al sapere scientifico, né si trasmette per geni. Uno scienziato non è necessariamente un buon maestro.
La formazione è un atto che incide profondamente sulla natura delle persone, fino a trasformarle.
I buoni formatori dovrebbero saper trarre le energie migliori, individuare i talenti, sollecitare gli intelletti, aborrire i formalismi, rigettare le opinioni.
Quante sono le ore di aula richieste ad uno studente per sostenere un esame? Come sono riempite queste ore? Cosa hanno saputo suscitare negli studenti? Quale stimolo ad approfondire e con quali strumenti? Quale coerenza tra docente e disciplina?
Cosa significa questa ultima domanda?
Ci sono stati uomini che hanno pagato con la vita per quello che insegnavano:uomini di legge, politici, medici, filosofi, scienziati, musicisti. Perché pagare con la vita il prezzo di un insegnamento?
Perché quello che veniva insegnato era capace di portare trasformazioni, di provocare riflessioni critiche, di produrre novità, di cambiare la storia. Il cambiamento spaventa, l’immobilismo no.
Può essere obiettato che non tutti raggiungono questa capacità nell’attività formativa, ma forse allora sarebbe meglio spogliarsi del titolo di docente, di professore, di maestro. Non certo perché il valore di un formatore sia indissolubilmente legato al martirio, ma certo all’impegno della vita sì.
E questo impegno non traspare dai risultati di un concorso seppur mascherato dal titolo di pubblico e nazionale. Un docente, un professore trae autorità e conferma solo dai risultati del suo insegnamento ed è facile fare il conto.
Un’istruzione che non cambia in meglio la società e non ne trasforma i valori, non serve a nulla. E’ davvero solo una spesa, un contenitore per parcheggiare le nuove generazioni dal momento che nessuno può occuparsene.
Un’istruzione di questo genere va disertata. Se una protesta deve levarsi da parte dei più giovani è quella che reclama il cambiamento non quantitativo ma qualitativo dei luoghi di formazione e dei suoi responsabili.
La formazione è uno dei pochi strumenti a sostegno della ragione e della libertà di pensiero. Il suo declino segna la decadenza di una civiltà, il ritorno all’oscurantismo, il rischio di derive reazionarie.
Chi si sente chiamato a rispondere a questo appello si mobiliti e faccia del suo sapere un’eredità da consegnare più che una medaglia di cui fregiarsi.
valerio
Posted at 16:20h, 25 Marzoper me va tutto bene